La scuola va a rotoli con le riforme del governo Berlusconi? Non sono un genitore, non sono un maestro e manco un professore, ma quello che vedo non mi piace e allora, ripensando a quando andavo alle elementari io, ai tempi del maestro unico, ho buttato giù questo raccontino …
Berna
Adesso che è finita da un bel pezzo mi sembra una cazzata, come fare un buco nel burro con il trapano, ma quando ci andavo non la pensavo così. Quando ci sei in mezzo, le cose hanno una connotazione molto diversa da quando te ne stai con il culo in salvo, abbondantemente lontano dai guai. Su questo mio nipote ha perfettamente ragione, io torto marcio.
La scuola fa vomitare, fa schifo. È un luogo opprimente dove ti costringono ad andare. Ti devi presentare tutte le mattine alla stessa ora, e se non vuoi ci vai lo stesso. Come palestra di vita ci prende in pieno. È perfetta.
Un professore ti sta sulle palle?
Non importa.
Trovi i tuoi compagni di classe insopportabili?
Chi se ne frega.
Tu sei stato assegnato lì, e lì devi andare. Ha forse alternative il condannato a morte? e la mucca nel macello? e il topolino nella tana del serpente?
Mica glielo posso dire al nipote tutte queste cose però. Devo convincerlo ad andarci con piacere: la scuola è bella, la maestra ci vuol bene e s’imparano tante cose… tutte quelle balle lì.
Devi eseguire sempre i compiti, devi comportarti da ragazzo maturo, devi alzare la mano quando sai le risposte. A pisciare una volta sola (meglio farla nell’intervallo), se ti scappa ancora te la tieni. Mai marinare la scuola, mai rispondere sgarbatamente alle insegnanti, mai...
Bei discorsi, buone intenzioni. Ottime per il libro Cuore.
Capite anche voi che mi è molto difficile risultare convincente quando ripeto queste quattro balle a mio nipotino. Soprattutto il discorso riguardante le berne, cioè il marinare la scuola. Chissà quante berne ho fatto nella mia lunga carriera scolastica. Non si contano. Ho cominciato da piccolo, in seconda o terza elementare.
Me la ricordo come fosse ieri la mia prima volta di berna. Io e il mio amico Goccia, soprannominato così perché aveva sempre la goccia al naso. Il moccio, intendo dire.
Abitavamo vicini io e Goccia. Di conseguenza andavamo a prendere l’autobus insieme. Nel mio piccolo paese non c’era la scuola elementare (non c’è neppure adesso), così eravamo costretti ad emigrare come pendolari. Tutte le mattine sull’autobus. Pioggia, neve, vento, nebbia...
Cinque o sei chilometri sulla corriera blu, in compagnia delle nostre maestre. Tutti ai propri posti, rigorosamente distribuiti a seconda della classe scolastica d’appartenenza: quelli di prima davanti, quelli di seconda subito dietro, quelli di terza … quelli di quinta in fondo. Parlo di un paesino di due, tremila anime, quindi un pullman era più che sufficiente per tutti.
Ogni mattina la stessa storia: sveglia, lavarsi la faccia, fare la cacca e la pipì, colazione, poi di corsa alla fermata della corriera. La nostra era situata davanti all’entrata della casa delle monache, ad uno sputo dalla chiesa. Per raggiungere il bel posto avevamo due strade: una breve e diretta, quella che una persona razionale avrebbe sempre preso, un'altra più lunga e tortuosa, con una salitona sconsigliata ai cardiopatici e difficoltosa pure per un bambino con cartella piena di libroni e quaderni.
Di solito, io e l’amico Goccia imboccavamo quella breve. Naturale. Ma quel giorno, quello della mia prima berna ufficiale, no. Tra l’altro, passando per la via secondaria, si aveva modo di vedere la corriera senza essere visti. Così potevamo osservare l’arrivo del pullman, aspettare si fermasse a raccogliere i nostri compagni e poi vederlo ripartire. Noi saremmo accorsi un minuto dopo, fingendoci dispiaciuti. Il piano appariva perfetto, lineare come una stecca da biliardo: grossa in testa, fine in punta. Troppo fine.
“Mi pare di aver visto la corriera passare,” disse Goccia dopo un paio di minuti di silenziosa attesa.
“Sicuro?”
“Sì, guarda giù in fondo, è passata, mi pare.”
“Allora andiamo…”
“Forse è meglio aspettare ancora un attimo.”
“Si è meglio. Se ci vedono arrivare subito, possono pensare a qualcosa di studiato.”
“No, è che non sono sicuro che sia passata. E poi non ti preoccupare, non possono farci nulla.”
“I carabinieri sì. I carabinieri se non vai a scuola ti ci portano loro.”
“Sì, ma per un solo giorno non ti fanno niente. E poi quando scendiamo alla fermata, mica incontriamo i carabinieri. Al massimo troviamo la mamma di Maddalena che ritorna a casa… Eccola, guarda che arriva. Nascondiamoci.”
La mamma di Maddalena, chiapperi! Credo avesse gli occhi dappertutto. O, più semplicemente, fosse dotata della supervista di Superpippo.
“Cosa fate lì?”
“Niente, lui non trova più un quaderno.”
“E lo cercate nel mio orto?”
“No, è che ci siamo fermati per vedere se l’ha messo in cartella… purtroppo abbiamo perso la corriera.”
Be’ insomma, dopo quattro ciacole con questa signora, poco convinta dai nostri discorsi, ce ne ritornammo a casa. Cosa stupida. A casa c’era ancora mio papà. Ci portò subito a scuola. Anche là parevano poco convinti riguardo alla storia del quaderno di Goccia. I compagni di classe sorridevano, mentre la maestra, ascoltando la nostra versione dei fatti, faceva la faccia seria e un tantinello seccata. Nonostante questo non ci punì. No, niente di brutto o cattivo. Manco una frustata sul culetto. Del resto, che avevamo mai fatto?
Si, come esordio di berna non è un granché, devo ammetterlo. Diventando grande ho imparato a farla meglio. Nel corso degli anni mi sono specializzato, ho affinato l’arte. Nell’ultimo anno delle superiori ne ho architettate molte. Allora non c’era più Goccia, c’era Massimillo. Ma queste sono altre storie. Meglio non scriverle ora, non vorrei mio nipotino le leggesse e tentasse d’imitarmi. È un’attività pericolosa.
E PER TORNARE SERI, ECCO ALCUNI LINK UTILI
DA VENEZIA UNO DEI TANTI VIDEO DELLA PROTESTA
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