Le cannonate e i bombardamenti in Ossezia e Georgia di questi giorni mi hanno fatto tornare in mente le guerre balcaniche degli anni novanta. Ho così deciso di proporre per i lettori del blog che non sono in vacanza (ma anche per quelli che ci sono, se hanno una connesione vicina e il pc a portata di mano), una cover di un racconto di Hemingway. È ambientata proprio in quel periodo, proprio nei Balcani. Lo scritto di Hem era ambientato in un’altra storica guerra europea di tanti anni fa, altrettanto dilaniante e sanguinosa. Chi mi scrive per primo il titolo del racconto parodiato riceverà in regalo un paio di pins dell’Alligatore (una pure con l’Alligatore di natale, rara e ricercatissima dai collezionisti).
INTANTO LEGGI LA MIA COVER
Grazie a dio sono ateo
Dentro al bar mi sentivo a mio agio. Era grande e poco illuminato e la cameriera che ci aveva servito le birre scopava attorno ai tavoli. Ogni tanto s’interrompeva per servire altri clienti, poi, con umiltà e molta tenerezza, riprendeva a scopare.
“Chissà perché scopare si dice scopare?” chiesi.
“Perché si usa la scopa.”
“No, intendevo dire, perché fare l’amore si dice anche scopare? Da cosa deriva?…chissà se anche nelle altre lingue si dice così? O che sia solo in italiano?”
I due amici dell’organizzazione umanitaria mi guardarono sbalorditi. Si fissarono con solidarietà reciproca negli occhi e ritornarono ad analizzarmi come fossi un pazzo.
Il camionista mi posò una mano sulla spalla e mi sorrise. Quindi mosse la testa come a dire no, non c’è niente da fare, questo giovane è un folle.
“Che cazzo ho detto di tanto assurdo? Ho visto la cameriera che scopava per terra e mi è venuta spontanea la domanda,” protestai nervoso.
“Si, hai ragione,” mi quietò il camionista. “Però a volte è meglio tenersele per sé certe domande che saltano fuori spontanee.”
“PUTTANA!… Non parlo più.”
Il camionista non aggiunse altro. Si limitò solamente a bere un sorso di birra e a pulirsi la schiuma dai baffetti. L’altro, quello che era quasi un prete, lo imitò sorridendo soddisfatto.
“CAZZO, mi guardate come fossi un personaggio di Fëdor Dostoevskij: l’idiota. Non si può dire proprio niente.”
I due non obiettarono nulla. Non sorrisero neppure alla mai battuta. Fissarono solamente i loro bicchieri mezzi vuoti con un atteggiamento d’indifferenza misto a finto imbarazzo. Questo mi mandò ancora di più in bestia, costringendomi ad uno dei miei famosi numeri da tribuno incazzato. Filippiche coloratissime delle quali poi mi pento. A volte.
“Si, sono un pazzo, perché ho deciso di farmi tutti questi chilometri per consegnare cibo e medicinali nel bel mezzo di una guerra e ho deciso di farlo con un camionista paternalista e un futuro parroco che non parla mai, io che sono ateo da un bel pezzo…del resto, come si fa a credere in dio in questo cazzo di posto, con le città sventrate, la gente che muore solo perché ha avuto la sfiga di venire al mondo con un cognome invece di un altro, perché ha avuto la sfortuna di nascere nei Balcani e non in Italia o in Francia, Germania, Stati Uniti… Cosa mi dite? Non sono argomenti seri questi? Domande da ragazzo impegnato? Cosa mi dici tu, don Diego? Dove se ne sta dio mentre questi saltano su di una mina schifosa, vengono bombardati da bombe intelligenti o stuprati da cazzi stronzi? Oppure fanno finta di starsene in un campo di concentramento per far contenti i potenti mass merda occidentali per quattro schei?”
“Dio sta in ogni cosa, per chi ci crede è così,” mi spiegò il quasi prete. “Per il resto sono in gran parte d’accordo con te. Quelle cose che dici fanno riflettere.”
“Se dio esiste si è dimenticato di noi,” filosofeggiò il camionista. “Questo è ciò che penso io.”
“Bene, due atei contro un religioso,” scherzò il quasi prete.
Ridemmo alla sua battuta, poi silenzio. Forse loro due riflettevano su quanto detto. Io invece guardavo la cameriera che scopava: una bella bionda tuttatette, abbronzata e ben truccata; un vitino da vespa e un fisico da modella. A guardarla bene, assomigliava parecchio ad una ragazza che pubblicizza un noto drink colorato sui cartelloni delle nostre città. Quella con il vestitino rosso e le chiappe di fuori, quelle che turbano tanto i benpensanti di casa nostra. Avrei voluto dirlo ai miei due compagni di viaggio, ma mi censurai.
Nel bar cominciava ad entrare parecchia gente. In soccorso della bella cameriera arrivarono due colleghe e un giovane con i capelli corti lisciati da qualche quintalata di gel.
“Guarda, c’è anche un tuo sosia,” scherzò il camionista dandomi una pacca sulla spalla.
“Cosa dici? Non capisco…chi?”
“Il giovane cameriere…vero che gli somiglia, don?”
“…si, un poco…”
“Ma che dite? Ha i capelli corti e non porta la barba. Senza contare che io non mi metterei mai tutto quel gel. Anzi, io non me lo metto… manco la miliardesima parte di quella che ha lui sulla testa.”
“Che cosa c’entra il gel o la barba? Io dico gli occhi e la faccia, ti assomiglia un sacco. Sembra tuo fratello.”
“Siamo tutti fratelli,” buttai lì per ridere.
Il quasi prete sorrise e mosse il capo come per sottoscrivere la mia affermazione. Avrei voluto gridarla a tutti i presenti e vedere l’effetto sui loro volti stanchi, stufi di guerre, leader nazionalisti, bombe intelligenti, cecchini del cazzo, mercenari barbuti, fascisti assassini, embarghi criminali, aiuti umanitari: SIAMO TUTTI FRATELLI. ALLELUIA!
“Vedete che a volte dico cose serie anch’io?”
“Lo hai detto perché un po’ pensi anche tu di somigliare a quel ragazzo.”
“Cos’è, oltre a fare il camionista sei anche psicologo? Leggi nel pensiero?”
“Leggo nel pensiero?”
“Va bene, hai vinto! … Pensandoci bene, e guardandomi senza barba, quel cameriere potrebbe assomigliarmi, ma io non mi sbarberò mai e non mi metterò mai del gel. Avrei preferito che tu dicessi che assomiglio al grande Emir Kusturica.”
“Perché, gli assomigli?”
“Lo spero.”
Intanto, mentre io sparavo queste ultime cazzate, la bella cameriera e il mio sosia si scambiavano effusioni dietro al bancone del bar. Si baciavano dolcemente e lui accarezzava i biondi capelli di lei.
Deglutii parecchia saliva guardando tutta la scena. Che invida! Alla fine, l’umido e rumoroso bacio del mio sosia sul collo della ragazza mi colpì dritto al cuore. Dovevo fare qualcosa o sarei scoppiato.
“Mai dire mai,” affermai balzando teatralmente in piedi. “Vado in bagno, mi taglio la barbetta e mi raso la testa. Ci ficco su gel a badilate e mi scopo, se mi passate l’espressione, la cameriera. Devo assolutamente approfittare di questa nostra somiglianza. Grazie per avermelo fatto notare, Casimiro.”
“Prego, non c’è di che,” sorrise il camionista.
Proprio in quel momento due tipi al centro del bar cominciarono a parlare concitatamente. Non capivo cosa stessero dicendo, ma mi impressionarono molto. Due che litigano in una lingua straniera non sono belli da vedere, ve l’assicuro. Tornai a sedermi.
Il camionista mi consigliò di starmene zitto e fermo. Non obiettai nulla, perché sentivo che dentro al bar stava per succedere qualcosa di veramente brutto.
Il mio sosia si avvicinò al tavolo dei due litiganti. Io non l’avrei mai fatto.
“Che succede?,” chiese sottovoce don Diego a Casimiro.
“Stanno litigando per una questione di soldi,” rispose il camionista.
“È sempre per soldi,” disse il futuro don.
“… no, no, per motivi religiosi,” si corresse il camionista.
“A volte si litiga per la fede. Tu credi in un dio diverso dal mio ed io ti uccido: bang, bang,” spiegai a don Diego.
“No…?! mi pare che… forse è per politica,” si corresse un’altra volta il camionista “Non ne sono sicuro, forse litigano per diverse cose. Non capisco bene, però non mi piace per niente,” concluse incerto e preoccupato.
Uno dei due colpì con un pugno il mio sosia, mentre questo cercava di calmarlo. La bella cameriera bionda corse verso il suo uomo, l’aiutò a rialzarsi e con un fazzolettino bianco cercò di pulirgli via il sangue. Rosso scuro, colava da una parte del labbro. Pareva di assistere ad una scena di un film muto. Un western.
Lui la spinse via bruscamente e ritornò da quello che lo aveva colpito. Io non l’avrei mai fatto.
“In questa situazione di guerra è facile perdere le staffe.”
“Già, sei sempre sotto pressione, basta un niente per accendere la miccia.”
La miccia bruciava svelta e bastarda. Mentre il cameriere boxava contro quello che lo aveva spinto via, l’altro prese in mano una sedia e la scaraventò contro il suo nemico. Questi si voltò di scatto, perdendo poi l’equilibrio e finendo dritto disteso. Anche il mio sosia rotolò a terra, sotto il corpo pesante di quello colpito dalla sedia.
“Meglio correre ai ripari,” suggerii ai mie amici.
“Già, è meglio,” acconsentì Casimiro.
“Stanno tutti cercando un riparo in attesa delle pallottole.”
Come vermi strisciammo dietro ad una grande stufa. Un posto abbastanza sicuro, rifugio di un bel po’ di clienti. Pure le due cameriere non interessate al mio sosia corsero lì. Una di loro proprio vicino a me. Ansimava impaurita e quando uno dei due nemici estrasse la pistola, un pistolone alla Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, mi si strinse forte al petto. Potevo sentire il suo alito confondersi con il mio. Anche nelle situazioni peggiori salta sempre fuori qualcosa di bello da narrare.
“Stiamo vivendo un’avventura molto pulp,” ridacchiò il camionista, che non aveva ancora notato la 44 Magnum dell’uomo. “Quando torni in Italia avrai una buona storia da scrivere.”
“Se usciremo vivi da qui,” dissi un istante prima della forte e definitiva dichiarazione del pistolone. Doppia e senza replica.
Finalmente le forze di pace occidentali entrarono nel grande bar. Dopo una rissa, tanta paura e due stupide morti, eccole lì.
Sequestrarono subito la pistola e ammanettarono l’uomo, procedendo come in un film americano a perquisire tutti gli altri avventori. Ci trattarono con maggiore tatto degli altri e dopo averci chiesto cosa facevamo in quel bar ci consigliarono di partire alla svelta. Bravi, bravissimi, ottimo suggerimento.
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