In palude con Deadburger Factory
NOTE SINTETICHE ALL’ASCOLTO DEL DISCO
GENERE avant rock
LABEL Snowdonia Dischi
PARTICOLARITA’ la doppia batteria, ma anche lo spirito antagonista, in definitiva il tentativo di conciliare la sperimentazione con sangue, sudore, polvere …
CITTA’ Firenze (+ Pisa, Grosseto ecc)
DATA DI USCITA 20 novembre 2020
L’INTERVISTA
Come è nato La chiamata?
Come l’altro lato dello specchio rispetto a La Fisica delle Nuvole , il precedente lavoro della Deadburger Factory.
Quello era un trip nell’inner space (sogni, visioni, immaginazione, emozioni… tutto il mondo interiore, insomma). Il nuovo album, al contrario, è un trip nella realtà esterna. Un faccia a faccia con tutti i problemi e le asprezze che l’esistenza quotidiana ci pone costantemente di fronte. I due lavori sono fruibili autonomamente (si può benissimo ascoltare e godere La Chiamata senza conoscere il suo predecessore). Insieme, compongono un dittico, il cui senso parte dalla domanda: a cosa ci serve la musica? Anzi, l’arte in genere? (il discorso infatti è lo stesso per letture, cinema, teatro ecc).
Per molti, il suo scopo si limita all’intrattenimento. Qualcosa che, per un paio d’ore, ci distrae piacevolmente… ci “stacca la spina” dal nostro quotidiano… dopo di che, torniamo tali e quali “nel mondo reale”. Questa visione è comprensibile e apprezzabile, ma io personalmente preferisco pensare che l’arte possa avere anche una funzione diversa: quella di aiutarci a “lucidarci i neuroni”… a capire meglio noi stessi e quello che ci circonda… a svegliarci e ricaricarci… per poi tornare ad affrontare la realtà quotidiana con energia e consapevolezza maggiori.
Credo che - magari in misura piccola, ma comunque benvenuta e preziosa - la musica possa davvero “cambiarci la vita”. Almeno per me, lo ha fatto di sicuro.
Il dittico La fisica delle nuvole/ La chiamata, con la sua intima correlazione tra inner side e outer side, esprime, appunto, questa visione dell’arte.
Proprio perché rappresentano i due lati dello specchio, le sonorità dei due lavori sono opposte: prevalentemente oniriche e astratte quelle del primo (con viola, flauto, chitarre acustiche, loops iterativi ecc), prevalentemente materiche e di “impatto fisico” quelle del secondo (con sassofoni urlanti, chitarre distorte, e soprattutto una gigantesca onda di pelli percosse: tutto l’album è a doppia batteria).
Se fosse un concept-album su cosa sarebbe? … tolgo il fosse?
La Chiamata è un rito sciamanico per propiziare l’arrivo di un cambiamento.
E, sì, è al 100% un concept-album! Non ci vergogniamo mica a dirlo. Sappiamo che è una cosa poco trendy, ma pazienza, di musica senza concetti ce n’è già parecchia in giro.
L’immagine chiave del concept è un vecchio sciamano dentro un moderno centro commerciale. Me lo immagino con occhi da pazzo e cuore rattoppato. Batte un grande tamburo istoriato, compie gesti rituali, pronuncia parole antiche. Gli avventori del centro commerciale lo prendono per il culo, lo fotografano per postarlo su FB o Instagram, ma lui li ignora.
La copertina disegnata da Paolo Bacilieri ci mostra quello che lo sciamano, nella sua mente (magari assistita da qualche funghetto), sogna di fare accadere. Ovvero: un’eruzione!
Il pavimento del centro commerciale inizia a tremare. Si gonfia, si cretta (….gli avventori si danno alla fuga, pensando a un terremoto), e infine si squarcia. Ne erutta… qualcosa di sconosciuto. Non necessariamente minaccioso, forse persino bello, ma ancora incomprensibile e dalle potenzialità ignote.
Come mai questo titolo? … come interpretarlo?
Il rituale dello sciamano si prefigge di evocare un cambiamento. La sua è una chiamata per il risveglio delle coscienze. Per la rinascita del sentire collettivo (quasi scomparso nell’attuale age of self). Per il recupero dello spirito “in opposition”. E anche per il ritorno della cultura underground: non a caso, nella visione dello sciamano, il cambiamento erutta dal sottosuolo, che in inglese si dice underground.
Lo sciamano sta chiamando a raccolta forze che oggi in giro non si vedono. Ma con il gramsciano “ottimismo della volontà” (contrapposto al pessimismo della ragione), voglio credere che, sotto il generale intorpidimento delle coscienze… e sotto l’apparente rassegnazione al costante incremento di disuguaglianze ed ingiustizie…. esistano forze reattive, in attesa di ridestarsi. Mi auguro con tutte il cuore di riuscire a vederle riemergerei. Ma bisognerebbe che si sbrigassero… non sono più giovane, gli anni scorrono come acqua da un rubinetto aperto, e, come dico nel testo del brano Tamburo sei pazzo, “non ho tutto questo tempo”.
Come è stata la genesi dell’album, dall’idea iniziale alla sua realizzazione finale?
Siamo partiti con dei demo realizzati in duo da Simone Tilli e me. Simone si è occupato delle voci, più alcune chitarre in due brani e drum programming in un altro. Io ho messo tastiere, loops, e, tramite programming e virtual instruments, le “imitazioni” degli altri strumenti: batterie, fiati, contrabbasso ecc (imitazioni destinate, ovviamente, ad essere sostituite dagli strumenti reali: in questo disco tutto è reale, verace e sudato).
Sono seguite innumerevoli session di registrazione, sia con i nostri compagni-burger (il chitarrista Alessandro Casini, il bassista Carlo Sciannameo, e tutti e tre i batteristi della nostra discografia), sia con i vari ospiti (che sono stati una quindicina, scelti in modo molto mirato: se invitavamo qualcuno a registrare con noi era perché ritenevamo che il suo tocco e la sua personalità fossero ideali per quel determinato brano).
Le session di registrazione si svolgevano così. Per prima cosa, ad ogni musicista raccontavamo la storia che stava dietro il brano, come se si trattasse di un film. Poi, gli chiedevamo di registrare un primo take “a partitura”, sulla falsariga delle parti presenti nel demo originario. Fatto ciò… le partiture venivano accantonate. I musicisti - che a quel punto erano entrati dentro lo spirito e le dinamiche del brano - venivano invitati a dimenticarsi del demo, e a registrare altri takes (uno, due, dieci…. quanti ne volevano) in modo libero. Improvvisando, rivisitando le parti seconda la propria sensibilità, sperimentando. La filosofia delle session, insomma, era: impara, dimentica, crea!
Per ogni brano abbiamo registrato valanghe di takes, tutti differenti. Successivamente, li ho riascoltati con attenzione, uno per uno, selezionando quelli che maggiormente mi facevano scattare il “godometro” interiore (che è la mia principale guida nel fare musica).
In certi momenti funzionavano meglio i takes “a partitura”, in altri i takes “liberi”. E spesso questi ultimi ci stimolavano a nuovi interventi. Ad esempio, poteva capitare che, in un take libero particolarmente bello, il batterista avesse apportato cambi di accenti al groove; e a quel punto magari modificavamo (o registravamo da capo) parti di basso o tastiere, per assecondare quegli accenti mutati.
E’ una metodologia impegnativa, che richiede tempo ed energie. Ma è anche molto stimolante: grazie ad essa le composizioni, pur restando coerenti “al film” che avevamo in mente originariamente, si arricchiscono di ulteriori colori e sfumature, finendo col sorprendere anche noi. E mi piace un sacco che, dopo tanti anni che suono, fare musica continui a sorprendermi!
Qualche episodio che è rimasto nella memoria durante la lavorazione del disco?
Ah, beh, il “making of” de La Chiamata di ricordi ce ne ha lasciati tanti! E’ stata un’avventura che ha portato me e Simone in giro per l’Italia. Siamo stati a Ravenna per la session di Bruno Dorella, a Monzambano (MN) per Zeno De Rossi, a Milano per Cristiano Calcagnile, a Cascina (PI) per Marco Zaninello, a Livorno per Silvia Bolognesi, a Prato per Silvio Brambilla, a Torino per Lalli e Enrico Gabrielli, a Ferrara per Alfio Antico, ecc. Questo perché (salvo due eccezioni) abbiamo evitato le collaborazioni “virtuali”, fatte con scambi di files a distanza; abbiamo voluto la “real thing”, cioè incontri veri - conoscerci di persona, chiacchierare, suonare, e magari andare a pranzo insieme.
Ci sono state anche ulteriori trasferte non per registrare ma per altri aspetti del “making of”: Bologna per i mixaggi, Milano per Paolo Bacilieri, Marina di Massa per il grafico Gabriele Menconi, Busto Arsizio per Snowdonia…
Tutte queste situazioni, come ti dicevo, ci hanno lasciato un sacco di ricordi. Come quando a Ravenna, terminata la session con Bruno Dorella, ci siamo incontrati di persona con una ragazza che in precedenza ci aveva intervistati per una webzine, e lei e il suo compagno ci hanno fatto da guide per un giro by night nella Ravenna “alternativa”.
Altra bella giornata: l’incontro con Lalli (uno dei nostri miti). Indimenticabili il suo tatuaggio con la volpina… l’incredibile carica emotiva che ha messo in Blu quasi trasparente (mentre cantava, avevamo il groppo alla gola)… la sua disponibilità a registrare una imprevista improvvisazione…. il regalo del suo libro di poesie (Nevicherà sul mare, splendido).
E ancora: la giornata a Ferrara, a casa di Alfio Antico. Ci eravamo portati dietro un Mac portatile e un microfono, e la session con lui l’abbiamo registrata direttamente nel suo soggiorno. Alfio è quanto di più simile ad uno sciamano che io abbia mai incontrato (mentre improvvisava l’introduzione di Tamburo sei pazzo, ci sentivamo trasportati in un altro tempo e un altro luogo)… ed inoltre, è un ospite squisito. Ci ha invitati a pranzo, cucinando lui. Ci ha mostrato il garage dove costruisce i suoi tamburi. Ci ha raccontato di come, da ragazzo, apprese i ritmi andando al mercato del suo paese natale, Lentini, dove ogni venditore aveva una cantilena diversa, dalla cadenza ricollegabile alla gestualità del suo lavoro.
Decisamente. la realizzazione de La Chiamata ci ha fatto incontrare non solo grandi artisti ma anche gran belle persone.
C’è qualche pezzo che preferite? Qualche pezzo del quale andate più fieri di La chiamata? … che vi sembra ideale da fare live?
Considero Manifesto Cannibale un vero “deadburger-manifesto”… Tamburo sei pazzo e Tryptich tra i brani più sperimentali di tutta la nostra produzione… Blu quasi trasparente una delle melodie più ispirate che ci sia mai venuta… ecc ecc. Direi che non abbiamo preferiti nella tracklist, sono tutti figli nostri, ogni scarrafone è bello ai babbi suoi!
Un disco così “fisico” si presta per intero ai live, ma forse i brani massimamente vocati in tale senso sono la title track (un autentico assalto frontale) e Manifesto Cannibale (che sul palco è dilatabile a piacimento, in una sorta di rituale kraut-voodoo).
Snowdonia Dischi ancora una volta a produrre… con chi altri?
E perché cercare altri? Snowdonia è l’etichetta indie italiana per eccellenza. Attiva da venticinque anni senza mai un cedimento qualitativo che sia uno. Cinzia e Alberto incarnano fino al midollo lo spirito dell’underground. Non possiamo che essere onorati che apprezzino la musica dei Deadburger, e speriamo di restare insieme anche per il futuro,
Paolo Bacilieri per la splendida copertina e non solo, anche nel libretto interno. Come si è sviluppata questa collaborazione? Come è nato tutto questo libretto ricco e forte?
Paolo aveva già illustrato La Fisica delle Nuvole, non poteva che essere lui a illustrare l’altra metà del dittico! La prima volta che lo incontrai fu ad una edizione del Bilbolbul (la mostra fumettistica di Bologna) in cui era ospite. Ci andai apposta per parlargli, non avrei saputo come fare altrimenti, non conoscendo la sua mail, e non avendo Paolo una pagina FB a suo nome. Feci la coda tra i fans che gli chiedevano disegnini con autografo. Quando fu il mio turno mi presentai, e gli dissi che non volevo un disegnino, ma il suo indirizzo, per sottoporgli una proposta di collaborazione.
Avevo pensato a lui perché amavo i suoi romanzi grafici tipo Durasagra e Sweet Salgari, ed ero straconvinto che il suo tratto - che sa essere contemporaneamente realistico (i suoi edifici, per esempio, hanno una precisione da architetto) e visionario/ surrealista/underground - sarebbe stato il non plus ultra per il dittico Deadburger, anch’esso a cavallo tra trip psichedelico e realismo. Sono felicissimo che questa collaborazione si sia avverata, Paolo è stato eccezionale, il risultato è persino meglio di quanto mi aspettavo.
In concreto, la cosa si è svolta così: io portavo a Paolo degli input iniziali (una sorta di “sceneggiatura”, con indicazioni di ambientazione, personaggi, situazioni) sia per la copertina che per i disegni destinati al libretto; lui li sviluppava, in modo creativo, aggiungendovi molto di suo; dopo qualche mese ci mandava le prime bozze, discutevamo insieme gli eventuali aggiustamenti di tiro, e così via fino al risultato finale.
Mi fa piacere che tu giudichi “ricco e forte” il libretto, nel quale, oltre ai disegni di Paolo e ai testi e credits delle canzoni, c’è tantissimo altro. E’ un libretto-mondo, ci ho speso centinaia e centinaia di ore! Sembra zigzagare in modo anarchico tra le cose più disparate, ma in realtà non c’è niente di casuale, sono tutti pezzetti di un unico puzzle, che approfondisce e sviluppa i temi del disco.
Nel libretto de La Chiamata ci sono parti giocose (come l’inserto Poor Robot’s Drum Art Gallery, la rivista d’arte più specializzata del mondo: unicamente opere – vere – di arte contemporanea aventi per oggetto tamburi!), e altre invece molto serie, impregnate dello spirito di quella che un tempo veniva chiamata “controcultura” (Frigidaire docet!).
Mi è particolarmente cara la parte finale, ovvero il Poor Robot’s Almanack “in opposition”, dove ho riversato tutto quel poco che mi sembra di aver capito di politica e società dopo una vita intera che seguo questi temi con passione.
Come presentereste il disco dal vivo? Con tutti i partecipanti?
Magari! Spero con tutto il cuore che, a pandemia domata, potremo portare questo lavoro sul palco. Credo che questo nuovo repertorio sarebbe letteralmente incendiario in versione live. Ma non sono sicuro che questo sogno possa avverarsi.
I Deadburger hanno messo in pausa l’attività live già da qualche anno (il nostro ultimo concerto è ascoltabile per intero all’interno dell’album Tinnitus Tales Tour di Forbici di Manitù & Friends). Questo perché le vicissitudini della vita ci hanno portati ad abitare in città diverse, anche parecchio distanti; e inoltre, alcuni membri storici hanno intrapreso altri progetti che li assorbono molto.
Ciò nonostante, l’idea di rimettere su una formazione live (…detta così, lo so, fa molto Blues Brothers!) ci gira insistentemente per il capo. Non sarà facile, perché, a questo punto del loro percorso, i Deadburger hanno sviluppato un sound policromo che travalica quello delle classiche band rock (…diverse recensioni hanno parlato di “orchestrazioni zappiate”; il paragone è troppo generoso, noi a Zappa manco avremmo potuto baciare i piedi, ma in qualche modo rende l’idea); e dunque, per portare La Chiamata su un palco, ci vorrebbero parecchi musicisti. Certo non tutti quelli presenti nel disco, ma comunque almeno sei o sette, oltre al tecnico della band. La complessità del repertorio richiederebbe un numero elevato di prove: un impegno che, giustamente, non tutti possono assumersi, senza la certezza di un adeguato ritorno economico (io posso farlo solo perché non pago le bollette con la musica, bensì con un altro lavoro).
Aggiungo che la molteplicità di strumenti richiederebbe palchi non piccoli, e impianti decenti, con un buon numero di spie; caratteristiche purtroppo poco congeniali alla maggior parte dei circuiti underground con cui ci capita di relazionarci.
Detto questo… credo che ci proveremo lo stesso. L’album ha avuto un’accoglienza fantastica, che ci ha sorpresi e commossi, e questo motiva ancora di più a cercare di riformare la band live. Se ci riusciremo o no, “lo scopriremo solo vivendo”!
Etichette: Avant Rock, Deadburger, Deadburger Factory, Firenze, In palude con ..., Indie, Intervista, La Chiamata, La fisica delle nuvole, Paolo Bacilieri, Rock, Snowdonia, Snowdonia Dischi, Sweet Salgari, Toscana
10 Commenti:
Gran piacere ospitare in palude una delle band più importanti del vero underground italico, coerente nel suo radicalismo rock.
Un disco curato nei minimi particolari, dalla copertina magica, che ben rappresenta la musica da essa contenuta questoLa Chiamata dei Deadburger, anzi,ora Deadburger Factory.
Come spiega bene nella lunga e interessantissima intervista Vittorio Nistri, i Deadburger sono ora una Factory, perché la band originaria si è allargata a tutte quelle collaborazioni, in giro per l'Italia, che loro hanno raccolto ... e, cosa strana a dirsi anno II della Pandemia, hanno "raccolto" dal vivo.
Sette pezzi splendidi, dove senti i tamburi battere, come in un rito sciamanico, dove leggi e ascolti, progetti non riconciliati, per un vero underground ... nella musica, nei testi, nel libretto tutto da leggere. Non è un disco e basta, come ci si aspetta da un lavoro dei Deadburger Snowdonia e la copertina del grande Paolo Bacilieri.
Ovviamente adesso viene la scelta delle canzoni, anche se mi viene da ridere. Come scegliere una canzone rispetto ad un altra? Difficile, molto diffcile, ma ci provo.
Mi viene da citare in primis la title-track maestosamente rock e dal gran ritmo. Un pezzo che sembra un grande classico dell'alternative - free-jazz e rock zappiano, fin dal primo ascolto.
Poi Tamburo sei pazzo, stratificato omaggio ai molti tamburi presenti in questo disco, direi tamburocentrico. Dilatato/dilatante tantrico magico ... ascoltatelo con davanti la copertina del disco e si muoverà.
E non posso dimenticare Manifesto cannibale, pezzo ancora con un gran ritmo, un gusto da rock radicale con un bel testo intelletuale. Psichedelia e anarchia a braccetto.
Un trittico irresistibile, una dietro l'altra, per farti saltare dalla sedia e dire "gran disco!"
Ma tutte le canzoni de La Chiamata avrei potuto citare, di tutte vi avrei potuto dire perché sono le mie preferite. Ma vi lascio il gusto di ascoltarle e scoprirle da soli. Buon ascolto, e grazie Deadburger Factory!
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