Io
(Valentina, voce) e Matteo (voce, chitarra) suoniamo insieme da diverso tempo,
oltre ad essere compagni di vita. Un paio di anni fa abbiamo cominciato a
scrivere insieme, nell’intimità della nostra casa e immersi nella nostra vita
di tutti i giorni. Non avevamo un obbiettivo preciso. Tant’è che per parecchio
tempo non abbiamo detto niente a nessuno. Ad un certo punto abbiamo realizzato
che ne stava uscendo qualcosa che, a nostro parere, non potevamo tenere chiuso
in un cassetto. I musicisti che abbiamo coinvolto sono senza dubbio
professionisti che stimiamo, con cui abbiamo collaborato per anni, ma ancor
prima sono amici preziosi con i quali sentivamo di voler condividere qualcosa.
In tutto siamo in sette: oltre a me, Valentina Comelli, in veste di cantante e
Matteo Mantovani, cantante e chitarrista, ci sono Cristina Gaffurini alla
chitarra acustica e al mandolino, Daniele Richiedei al violino, Nicola Ziliani
al contrabbasso, Riccardo Barba al pianoforte e Paolo Zanaglio alla batteria.
Ognuno di noi viene da background musicali diversi, chi dalla classica, chi dal
blues o dal jazz. Abbiamo alle spalle le esperienze e le collaborazioni più
disparate (Marc Ribot,Mina, Sting,
Sarah Jane Morris, Mika, Sagi Rei, Baustelle, Gianni Morandi, Charlie Cinelli,
Riccardo Maffoni, Elizabeth Lee, Steve Baker…). Abbiamo lavorato a lungo per
trovare un sound nostro, unico, che desse spazio alla personalità di ciascuno.
Alla fine il risultato è una musica che affonda le proprie radici nel
cantautorato folk americano, esplorandone le molte sfumature attraverso un
linguaggio moderno e libero, che lascia spazio a sonorità roots rock, a ballate
dal sapore Irish e a momenti d’improvvisazione.
Perché
nessun titolo, se non il nome della band MOAI? … che vuol dire?
Abbiamo
scelto di dare al disco il nostro nome, MOAI, perché riassume perfettamente
tutto.Di solito si pensa subito alle
statue dell’isola di Pasqua e, in effetti, si chiamano proprio così; in realtà
questa parola ha anche un altro significato: a Okinawa, in Giappone, c’è una
delle cosiddette “Blue Zone”, le aree del mondo con il più alto tasso di
longevità, dove la gente vive più a lungo. In questo luogo ogni individuo per
l’intera durata della sua esistenza fa parte di una piccola rete di supporto di
circa 5 persone, dove ci si sostiene a vicenda, ci si incontra regolarmente, ci
si aiuta, si condivide la vita quotidiana: un impegno reciproco alla
condivisione e alla cura che dura per tutta la vita. In altre parole, nessuno è
solo. E non è soltanto un modo per tenersi compagnia a vicenda o trascorrere
del tempo insieme: davanti a una difficoltà qualsiasi di un membro del gruppo,
gli altri uniscono le proprie risorse per aiutarlo. C’è addirittura una sorta
di registro, la comunità si fonda su questa struttura sociale. Ecco, queste
reti, queste famiglie allargate, si chiamano MOAI. Ci piace questa idea che le
persone vivano meglio e più a lungo se hanno una rete che non le abbandona mai,
un simbolico abbraccio che non viene mai meno. Volevamo che la nostra musica,
con semplicità e onestà nelle parole e nei suoni, restituisse questa sensazione
di appartenenza, di intimità e libertà insieme: una casa dove ti piace tornare
e dove sai che chiunque tu sia, qualunque sia la tua forma, c’è un posto per
te. Speriamo di esserci riusciti.
Come
è stata la genesi dell’album, dall’idea iniziale alla sua realizzazione finale?
Non
pensavamo a un disco, a essere onesti pensavamo al live, più che altro. E,
infatti, siamo partiti da lì. Dopo qualche mese in sala prove, quando abbiamo
capito che ogni brano aveva trovato la propria identità, abbiamo voluto
sperimentare subito la dimensione dal vivo, quella che più ci appartiene. Siamo
stati abbastanza determinati in questo senso, la registrazione di un disco ci è
parsa, più che un inizio, una naturale conseguenza. Marco Franzoni, con cui
Matteo aveva già lavorato in precedenza nel suo album Piccoli momenti di caos (2015) e in altri lavori discografici, ha
prodotto il disco insieme a noi negli studi Bluefemme Stereorec a Brescia.
Siamo approdati in studio di registrazione dopo diversi concerti e a posteriori
siamo contenti di esserci mossi così, perché siamo arrivati con le idee
abbastanza chiare, ovviamente aperti a suggerimenti e critiche, ma anche
piuttosto consapevoli, sapevamo cosa volevamo; dubito che altrimenti avremmo
potuto registrare tutto in pochi giorni.
Qualche
episodio che è rimasto nella memoria durante la lavorazione dell’album?
Be’,
diciamo che essere in sette aiuta in questo senso! Se ripenso alla
registrazione in realtà ho ricordi confusissimi, ma ho due immagini in mente:
una risale ai primi giorni in studio, un pranzo tutti insieme in una trattoria
nei dintorni, nel pieno della calura estiva (era agosto). Nulla di
significativo, eravamo tutti tremendamente sudati e felici, tra chiacchiere e
risate, con un bicchiere di vino davanti. Guardandoci ho pensato solo due cose:
“siamo proprio noi” e “perché cavolo lo stiamo facendo ad agosto?!”… La mia
gratitudine per tutta la squadra è aumentata in proporzione all’aumentare della
temperatura. La seconda me l’ha fatta tornare in mente Cristina, l’altra
(splendida) donzella del gruppo; è una fotografia scattata da Paolo Lazzaroni,
fido assistente di produzione (oltre che chitarra e voce dei Karmasonica):
siamo nella sala più grande dello studio, tutti insieme, in cerchio,
concentratissimi mentre cerchiamo di trovare il giusto andamento di Last moments on earth. Per me è il
simbolo di quanto quei giorni ci abbiano unito e affiatato come gruppo.
Se
fosse un concept-album su cosa sarebbe? … anche a posteriori?
Direi
sulla libertà. Prima di tutto perché abbiamo cercato di non pretendere di
soddisfare le aspettative di nessuno, se non le nostre: questo disco doveva
piacere a noi, per poter pensare che piacesse a qualcun altro, quindi ci siamo
mossi senza porci limiti, senza farci condizionare. E poi perché avevamo
parecchi buoni motivi per pensare che mettere in piedi una band di sette
elementi, incidere un disco in inglese non esattamente rispondente alle logiche
del mercato e farlo uscire durante una pandemia mondiale che vieta i concerti
fosse un’idea da scartare a priori. Ma l’abbiamo fatto comunque, perché abbiamo
deciso che nonostante tutto ci dica il contrario, abbiamo la libertà di pensare
in grande e non vogliamo scordarcela per strada. Siamo abituati a vivere
puntando al minimo indispensabile per la nostra sopravvivenza emotiva, diamo
per scontata la delusione dietro l’angolo, il mondo intero non fa che mostrarci
che sperare in qualcosa è da ingenui, da sciocchi, da stupidi. E invece no. Nel
primo brano dell’album il ritornello dice “Siamo arrivati qui liberi, insieme”.
Eravamo liberi di sognare qualsiasi possibilità, anche le più difficili da
immaginare, e lo abbiamo fatto. Potrebbe essere anche un disco sulla libertà di
essere sé stessi, non tanto perché ci sia una canzone in particolare a dirlo (o
forse un po’ lo dicono tutte, sotto sotto), ma perché io stessa ho dovuto
imparare la mia libertà di esistere per come sono, nel bene e nel male,
accettarmi con tutte le cose di me stessa che non riesco a comprendere e
insieme fare lo sforzo di cambiare i pezzi della mia vita in cui non mi
riconosco, io stessa ho dovuto imparare che l’individuo imperfetto che sono può
concedersi la meraviglia di un sogno grandioso, prima di sedermi, prendere in
mano la penna e sentirmi libera abbastanza da scrivere chi sono dentro una
canzone.
C’è
qualche pezzo che preferite? Qualche pezzo del quale andate più fieri
dell’intero disco? … che vi piace di più fare live?
Domanda
difficile questa! Così a caldo, ti dico la mia tripletta: My darling child riesce a creare un’atmosfera così rarefatta e
intima che si ritaglia un angolo tutto suo nella scaletta. Turn the light off è un pezzo che dal vivo ha qualcosa di feroce,
non saprei che altra parola usare. Probabilmente però il brano che sentiamo di
più live è Last moments on earth, il
pezzo con cui chiudiamo i nostri concerti, è un momento molto energico,
viscerale, la canzone è un saluto molto sofferto a chi ci sta lasciando,
metaforicamente e non solo. Ed essendo l’ultima in scaletta, è sempre
accompagnata da un bellissimo sentimento liberatorio che contagia ogni membro
del gruppo, come a dire che “anche questa volta è andata”!
Come
è stato produrre il disco da soli? … da chi gli aiuti maggiori?
È
stato catartico, in tutte le fasi di lavorazione. Ci siamo scontrati con tutte
le difficoltà più ovvie, la voglia di fare il meglio possibile e i limiti dei
mezzi a nostra disposizione. Questo però ci ha dato anche la misura di quanto
fossimo motivati e determinati. Ci sono stati momenti di scoramento in cui ci
siamo chiesti se ne valesse la pena: registrare un album è un lavoro
appassionante e totalizzante ed è anche estenuante allo stesso tempo,
oltretutto dover conciliare sette teste che pensano in modo diverso non è
sempre facile. Ci hanno aiutato tantissimo tutte le nostre persone, tra amici e
famiglia, che ci hanno incoraggiato e supportato in continuazione. Ci siamo
aiutati molto a vicenda, indubbiamente, riportando leggerezza nei momenti di
difficoltà e cercando di non dimenticarci di divertirci su qualunque palco e in
qualsiasi situazione. E non posso non rinominare Marco Franzoni che ha fatto un
ottimo lavoro, ha capito fin da subito cosa avevamo in mente, ci ha guidati con
sicurezza (anche implorandoci di stare zitti quando cominciavamo a parlare
tutti e sette insieme contemporaneamente) durante la registrazione e anche
nelle fasi successive, consigliandoci e aiutandoci a districarci tra i vari
step. Infine, lo dico sinceramente, ci ha aiutato molto anche il fatto che
abbiamo amato davvero profondamente ognuna di queste canzoni. In tutti quei
momenti in cui non sapevamo se ne valesse la pena, riascoltarle e risuonarle ci
ha dato la risposta.
Copertina
semplice e diretta. Come è nata? Chi cura l’aspetto grafico della band?
Colpevole!
Curo io la parte grafica, fatta eccezione per il logo (disegnato da Claudio
Comelli, mio fratello), che abbiamo messo in copertina su uno sfondo molto
semplice: una trama che lascia intravvedere ombre e profili, senza che si possa
distinguere del tutto ciò che nasconde. Volevamo che creasse un po’ di mistero,
che incuriosisse e fosse un invito a non fermarsi alle apparenze.
Come
presentate dal vivo il disco?
Il
concerto è la dimensione in cui ci muoviamo con più naturalezza. Se non si
fosse capito, la chiacchierona del gruppo sono io! Certo, cerco sempre di non
rubare troppo tempo alla musica, ma mi piace prendermi del tempo per raccontare
chi siamo, quale storia c’è dietro a un brano, anche considerando che i testi
sono in inglese e non per tutti sono comprensibili. Lo faccio in modo un po’
giocoso, cercando di prendere per mano le persone e portarle con noi, di creare
l’atmosfera giusta, coinvolgente. Credo che sia la nostra fortuna il fatto di
avere tanta esperienza dal vivo, insieme e non, perché ogni volta andiamo a
finire in un “posto” nuovo e fino ad ora ci è sembrato che chi era dall’altra
parte ci abbia seguito, dandoci fiducia e lasciandosi stupire. Il live è in
crescendo, si parte dalle atmosfere più intime per entrare in confidenza con il
pubblico e accompagnarlo fino a farsi trascinare dall’energia giusta…
O
almeno ci proviamo! Qua e là ci togliamo anche la soddisfazione di rifare a
modo nostro le canzoni dei grandi artisti che amiamo: Bob Dylan,
Simon/Garfunkel, The Beatles…
Altro
da dichiarare?
Direi
che ho già “parlato” anche troppo! Mi auguro di avervi fatto venire voglia di
conoscerci meglio e spero che se troverete un po’ di tempo tranquillo per voi
stessi per ascoltarvelo in cuffia, questo piccolo disco vi regali tutto quello
che ha regalato a me, a noi.
MOAI che fa pensare all'isola di Pasqua, ma che in realtà ha un altro significato ... molto bello: in sintesi una piccola comunità che si aiuta reciprocamente in quel di Okinawa, tra i popoli più longevi della terra (ma Valentina nell'intervista lo spiega molto meglio me, leggete, è molto interessante )... é bello che abbiano deciso di chiamarsi così per questo. Decisamente un buon inizio.
Come è bello l'inizio del disco, The House on the Beach, con musica sinfonica che sembra un inno alla natura, e poi una voce soave di donna, Valentina, che non ci lascerà mai lungo tutto il disco.
(Got to tell you) Something è un gran bel blues delle paludi (non può non piacermi, è musica d'Alligatori). La band che suona come un solo uomo, un sound labirintico, tastiere in evidenza, le chitarre, il cantato unico ...
Altra canzone con il gruppo intensamente unito è My darling child. Fa pensare a Damien Rice, intenso, dolente, suonano come fossero uno, ma allo stesso tempo ognuno riesce a ritagliarsi il suo spazio, dagli archi alle chitarre, la voce ...capisco perché è indicata tra i brani preferiti
Potrei dirvi anche di So strange e Lullaby of the storm due pezzi decisamente Irish, non solo per il violino, non solo per l'andamento classico, la malinconia. Molto suggestive.
Critico rock del web. Pacifista integrale.
Collaboratore del sito della nota agenda
Smemoranda dalla lontana estate del 2003 e del Frigidaire cartaceo dall'autunno 2009. Dall'aprile 2017 collabora anche con Il Nuovo Male, e dall'estate del 2017 con il portale I Think Magazine, dall'autunno 2018 con MeLoLeggo.it. A gennaio 2018 fonda con Elle il sito L'ORTO DI ELLE E ALLI . Metà veneto, metà altoatesino (la mamma è dello stesso paese di Lilli Gruber), è nato nei primi anni Settanta, il giorno del compleanno di Jack Kerouac.
12 Commenti:
Molto piacere ospitare in palude i MOAI, bel gruppo di Brescia con questo particolare esordio.
MOAI che fa pensare all'isola di Pasqua, ma che in realtà ha un altro significato ... molto bello: in sintesi una piccola comunità che si aiuta reciprocamente in quel di Okinawa, tra i popoli più longevi della terra (ma Valentina nell'intervista lo spiega molto meglio me, leggete, è molto interessante )... é bello che abbiano deciso di chiamarsi così per questo. Decisamente un buon inizio.
Come è bello l'inizio del disco, The House on the Beach, con musica sinfonica che sembra un inno alla natura, e poi una voce soave di donna, Valentina, che non ci lascerà mai lungo tutto il disco.
Gran disco con undici pezzi tra i quali è decisamente difficile scegliere un pezzo rispetto a un altro.
(Got to tell you) Something è un gran bel blues delle paludi (non può non piacermi, è musica d'Alligatori). La band che suona come un solo uomo, un sound labirintico, tastiere in evidenza, le chitarre, il cantato unico ...
Altra canzone con il gruppo intensamente unito è My darling child. Fa pensare a Damien Rice, intenso, dolente, suonano come fossero uno, ma allo stesso tempo ognuno riesce a ritagliarsi il suo spazio, dagli archi alle chitarre, la voce ...capisco perché è indicata tra i brani preferiti
Grandi anche con Turn the light off, che sembra un classico del folk-rock al primo ascolto: voce/chitarra e violino dalle atmosfere dylaniane.
Merita menzione anche Don't blame me con le tastiere a giocare con la voce e giri di chitarra magici... il tutto molto isaakiano.
Potrei dirvi anche di So strange e Lullaby of the storm
due pezzi decisamente Irish, non solo per il violino, non solo per l'andamento classico, la malinconia. Molto suggestive.
Come tutto il disco. Sì, l'esordio dei MOAI è molto suggestivo. Provate ad ascoltarlo e ditemi se non ho ragione ...
Grazie infinite Alligatore, è stato un piacere e un onore chiacchierare con te e farti conoscere il nostro lavoro!
Alla prossima, in palude!
Piacere mio MOAI.
Alla prossima!
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