NOTE SINTETICHE ALL’ASCOLTO DEL DISCO
GENERE: MUSICA ELETTRONICA
DOVE ASCOLTARLO: SPOTIFY, APPLE MUSIC, AMAZON,YOUTUBE
LABEL WASTE NOISE
PARTICOLARITA’ ORIGINALE, EMOZIONANTE, EVOCATIVO
CITTA’ Foligno, Chicago, Milano
DATA DI USCITA 06/11/2020
L’INTERVISTA
Come è nato Linear Burns?
Come nasce un verso di poesia. Come può venir voglia di cantare in Chiesa. Così come di gridare allo Stadio o di cominciare ad improvvisare al pianoforte vedendo la sedia vuota davanti alla tastiera, in un hotel o una stazione ferroviaria.
Linear Burns è nato da questa esigenza, quella di esprimere una visione, una visione sonora dell’esistente filtrata dai miei occhi e dalla mia sensibilità. È nata da il lasciarsi andare a quella spinta ancestrale che mi ha sempre emozionato, che riesce a dare un senso alla mia vita, tra le altre cose. È quella voglia di fare ginnastica in modo serio e impegnato, una ginnastica per l’anima. Platone diceva che la musica è per l’anima quello che la ginnastica è per il corpo.
Perché questo titolo?
C’è stato un momento in cui mi sono accorto di come il tempo mi ha cambiato, ma non il semplice fluire dei giorni, degli anni e delle ore che invecchia la pelle, ma il tempo scandito dalle proprie esperienze.
L’incontro con la vita, il prossimo, la percezione delle cose, filtrato dai ricordi, dalla memoria storica del corpo, dai contatti umani, dalle sconfitte così dure da digerire, dai successi così brevi da godere.
Ciò che mi ha cambiato, ha segnato, nella mia anima, delle cicatrici, delle bruciature, delle ustioni, caratterizzate da un’esposizione troppo profonda al bello così come alle cose negative ed alle sperienze di dolore, tutto questo ha generato delle cicatrici che mi hanno fatto cambiare aspetto, ma che, al tempo stesso, si sono rivelate foriere di nuove identità generando dei nuovi me stesso.
Ustioni lineari quindi, che rappresentano quello che sono diventato oggi. Un processo che si rispecchia nel mio modo di fare musica, nelle percezioni che cambiano nel tempo così come cambia la sensibilità e quindi il modo di esprimersi.
Come è stata la genesi dell’album, dall’idea iniziale alla sua realizzazione finale?
Il periodo di Lockdown, causato dalla pandemìa, mi ha lasciato tante serate e tanti week end da solo, chiuso in casa, dove ho il mio homestudio, e questo è stato un bene. Perché ho avuto il tempo di pensare, di realizzare cosa sono oggi, qual è la mia identità di adesso.
Da qui quell’esigenza interiore, che mi ha sempre accompagnato, di fare musica, ha preso corpo.
Ho composto diversi pezzi in quel periodo con molta concentrazione e molta velocità e anche molto lavoro. Poi ho ripreso dei pezzi che avevo scritto durante alcuni viaggi e li ho completati, aggiornandoli alla mia visione di oggi, davanti ai pianoforte, ai sintetizzatori, ai campionatori ed al comuper.
Ha preso quindi forma una rappresentazione realizzata tutta d’un fiato, di una storia costituita di tanti passaggi, tra stili e ricerche di suoni e armonie, di atmosfere ed evocazioni sonore.
È stato un percorso davvero lineare, un dipinto a colori e in bianco e nero attraverso tutte quelle “ustioni” che ho rivissuto attraverso la memoria. Sono arrivato a comporre l’ultimo brano con la sensazione, nel cuore, di aver terminato un lavoro di senso compiuto, un po’ come un opera lirica moderna, con una sua storia, i suoi momenti di phatos, di gioia e d’introspezione.
Qualche episodio che è rimasto nella memoria durante la lavorazione di Linear Burns?
Te ne racconterò 3 in particolare.
Un giorno quando stavo componendo, ho sentito la voce di un megafono che veniva dalla finestra aperta, era la polizia locale che avvisava la popolazione di non uscire, delle sanzioni che potevano incorrere coloro che trasgredivano e di tutte le cose che si potevano e non potevano fare.
Ho avuto la chiara sensazione di stare vivendo un film di fantascienza di serie b, tant’è che ho subito preso il cellulare e girato un video dalla finestra, da dove si poteva ascoltare bene questo megafono posizionato sopra la macchina della polizia. Essendo poi la finestra in questione dotata di ramate di ferro, dato che abito al primo piano, ne è venuto fuori un video che davvero sembra girato per un film di fantascienza, che ha immortalato le strade deserte e questa voce metalliza uscire dal megafono. Lo terrò sicurmaente da parte per magari utilizzarlo in qualche video clip o semplicemente per farlo vedere, in un futuro prossimo, ai posteri. Sta di fatto che mi sono rimesso a comporre con un senso di oppressione notevole a cui, però, dall’altro lato è corrisposta una grande voglia di libertà. E il tutto ha trovato, poi, una propria traduzione musicale in quello che stavo facendo.
L’altro episodio va un po’ più indietro nel tempo. Capita spesso che quando qualcosa mi colpisce e mi gira un motivo in testa, tiro fuori il mio ipad e comincio a comporre un’idea di base, che svolgo, in modo rudimentale, con dei programmi che ho già installato.
Mi capitò di farlo durante il mio viaggio di ritorno da Chicago. Naturalmente avevo le cuffie, ma credo che delle 9 ore di viaggio tra Chicago e Roma, 4 le ho passate a suonare con l’ipad questo motivo che avevo in testa.
Ebbene, alla fine del viaggio, quando l’aereo atterra e tutti ci si alza per uscire, e di solito è uno dei pochi momenti in cui ci si guarda intorno e si vedono in faccia le persone con chi si è viaggiato, un signore di una certa età, che era nel sedile dietro di me mi fa: era proprio carina quella muisica e ho capito che ti piaceva tanto per quante volte l’hai ascoltata.
Io, imbarazzatissimo, gli chiesi scusa perché avevo capito che forse avevo tenuto il volume delle cuffie un po’ troppo alto e lui con un sorriso mi disse: “non c’è problema mi ha conciliato il sonno”.
Ora non credo che sia stato proprio un complimento, ma già il fatto che non avesse cercato di avvisarmi che lo stavo disturbando e che non mi avesse mandato a quel paese, la considero una cosa divertente e molto carina da ricordare. Il pezzo in questione era quello che poi è diventato Chicago.
Il terzo episodio ha riguardato la stesura di due pezzi I met myself (but you’re gone) e Can’t believe i made it. Stavo finendo gli arrangiamenti di questi due brani quando, in un momento di pausa mi connetto a facebook. Il destino ha voluto che fossi venuto così a conoscenza del fatto che una delle persone a me più care, un amico che dire fraterno sarebbe davvero dir poco, con cui mi sentivo praticamente ogni giorno e con il quale avevo scambiato un paio di messaggi solo la sera prima, era venuto a mancare improvvisamente, a 40 anni compiuti da poco, mentre era appena tornato in Cecoslovacchia dove lavorava.
Avevo letto i messaggi di facebook con scritto RIP, condoglianze, non ti dimenticherò mai…ecc. Non mi capacitavo fosse reale quello che era avvenuto ma avevo capito che era successo davvero. Fu per me un momento che non mi scorderà mai sinchè vivrò. Un dolore davvero incommensurabile. Smisi di suonare e di lavorare al disco per un bel po’.
Riflettei su tante cose, mi assalirono mille ricordi e piansi tanto. Insomma non sto a dilungarmi su quello che significò la sua scomparsa, così ingiusta, così imprevedibile, così dolorosa… ma te lo lascio immaginare. Sta di fatto che quando ripresi a lavorare su quei due brani, che poi erano gli ultimi rimasti incompiuti di tutto il lavoro che avevo fatto su Linear Burns, sconvolsi tutto l’impianto armonico e ritmico e gli arrangiamenti e li rifeci alla luce di questa vera cicatrice dell’anima che mi aveva lasciato quel dolore così inaspettato.
Ne sono usciti due pezzi, a mio parere tra i più intensi dell’intero Lp, tra i più sentiti da un punto di vista interiore. Il titolo I Met Myself (but you are gone) è proprio un omaggio in ricordo del mio amico che quando mi chiese cosa mi dava la musica e perché suonavo (è stato il mio primo e più accanito fan, il suo pezzo preferito dei miei era In Berlin it’s 3 O Clock, perché ci ricondava il periodo berlinese e volevamo tornarci insieme), mi ricordo come fosse ieri che gli risposi che facevo musica perché, suonando, riuscivo a trovare me stesso. Componendo I Met Myself ero riuscito davvero a trovare me stesso, come forse mai mi era capitato pirma e avrei voluto dirglielo… ma lui se n’era andato.
Se fosse un concept-album su cosa sarebbe? … anche a posteriori?
Io credo che Linear Burns sia un Concept Album.
Come ti dicevo all’inizio è nato quasi di getto, come fosse la stesura di un concerto per sintetizzatori e orchestra o qualcosa di simile.
Linear Burns è un concep album sulla libertà, la libertà ritrovata di ragionare sulla propria vita e sulla propria esistenza. La libertà di ideare, di pensare e agire senza costrizioni. La libertà dalla routine di tutti i giorni, dalla noia di una vita scontata.
È talmente libero il modo in cui ho utilizato gli strumenti tipici con cui si fa, oggi, musica elettronica, il mezzo per esprimere il mio visionario sonoro, che davvero credo che il disco, nel suo complesso, dia la sensazione di non essere chiuso in nessuna gabbia stilistica o modaiola pur essendo al 100% un album contemporaneo che tenta di guardare molto anche al presente e che risente, necessariamente, dei condizionamenti del mondo reale che ci circonda anche musicalemtne parlando.
C’è qualche pezzo che preferisci? Qualche pezzo del quale vai più fiero dell’intero disco? … che ti piacerà di più fare live?
Quando si scrive un Lp composto di 12 brani, contenenti più di un’ora di musica (cosa piuttosto atipica di questi tempi) è difficile dare una preferenza ad un brano piuttosto che ad un altro. Ogni singolo pezzo è come un figlio, ognuno con le sue caratteristiche e le sue bellezze, in ognuno ci ritrovo me stesso, una parte di me, un momento della mia esistenza e del mio approccio con il mondo.
Raramente mi è capitato di trovarmi nella condizione di non avere davvero un “preferito” tra tutti i brani che compongono un LP (ti ricordo che questo è il terzo che pubblico).
Ti posso dire, magari, ad oggi, in questo presente, quali brani mi piace di più ascoltare:
Lovely Crooked Streets, Much More Funky than Bacon eggs, Just one Drink to Join me to You e i due brani che ho citato prima, I Met Myself (but you’re gone) e Cant’t Believe i Made it. Tuttavia sto già cambiando registro, ho ricominciato a riascoltare More Flashing Lights In the Space Station e Within us Above Us (due dei brani che mi hanno impegnato di più dal punto di vista realizzativo) insieme a Chicago.
Foreign Doors, il singolo di lancio dell’LP, l’ho ascoltato talmente tanto che ho bisogno di una pausa.
Ma poi come dimenticare Jazzy Trasforming Nazi e GloryduMM forse tra i brani più eclettici e Pan’s Call (but i love Technology) che ascolto sempre quando voglio un po’ di “tranqullità sperimentale” per le mie orecchie.
Insomma, come vedi, alla fine te li ho citati tutti. Non me ne volere ma sono uno di quelli che ama ascoltare sino allo sfinimento le cose che fa, soprattutto dopo l’uscita ufficiale dei pezzi. Naturalmente ascolto anche altro al momento, non sono così egoriferito come può sembrare, anzi ascoltare cosa gira per il mondo è sempre stata una delle mie più grandi passioni.
Il disco è autoprodotto. Cosa vuol dire? Chi hai avuto più vicino?
Vuol dire che non ho avuto nessun produttore che mi supportasse o che mi guidasse o vincolasse nel mio percorso creativo.
Ho avuto in passato esperienze di questo tipo e ti dirò, non sono mai stato capace di sopportare i condizionamenti, soprattutto se ti accorgi che non sono tanto legati al riconoscimento del valore di quello che fai ma alle leggi del mercato.
Un produttore anche piuttosto famoso, una volta mi disse: adoro quello che fai ma dovresti osare di meno.
Ora, non voglio fare la parte di chi non accetta consigli o di chi si ritiene così navigato da sapere tutto lui, ma non voglio nemmeno snaturare la ragione per cui faccio musica.
Se avessi voluto subito tuffarmi in produzioni dal sicuro successo commerciale, avrei fatto il ghost writer per qualche boyband o giovane trapper, rimanendo nascosto nell’ombra, accontentandomi di ricevere la mia parte e facendo musica di merda. Credo che sia non solo umiliante ma anche frustrante fare l’impiegato della musica.
Io sono partito sempre da un concetto, che prima o poi, la qualità paga. Se hai qualcosa da dire di diverso, prima o poi qualcuno ti noterà. Un creativo vero, un artista vero, deve coltivare questo tipo di ambizione e soprattutto crederci. Ci vuole tanta autostima per fare questo passo e tanto coraggio. Linear Burns è il mio terzo LP. senza contare poi la pubblicazione di EP e singoli e le collaborazioni con altri artisti fatte negli anni.
Di gavetta ne ho fatta tanta e probabilmente ne dovrò ancora fare, tuttavia, a piccoli passi sono riuscito a crearmi un mio pubblico e, soprattutto, ad essere credibile.
Troppo spesso vedo giovani e meno giovani con più o meno talento, che si affidano a grossi nomi, pagandoli fior di quattrini, nella speranza che, di rimorchio, possano crearsi uno spazio proprio, cosa che è sempre più difficile in un mondo sempre più competitivo e distratto nei confronti della qualità. La qualità di quello che proponi è comunque necessaria per poter fare un minimo di breccia in questo mondo.
Ma alla base di tutto, alla base di ciò che ti spinge a fare musica, c’è quello che hai da dire, come sei in grado di dirlo e perché lo vuoi dire. Se prima di proporti agli altri non fai le tue esperienze, se non vivi veramente, se il tuo mondo interiore è vuoto e se non lavori su te stesso, non riuscirai mai ad essere credibile.
Non escludo in futuro magari di lavorare sotto l’egida di un produttore illuminato o sotto contratto, sarebbe realizzare il sogno di riuscire a vivere esclusivamente di musica, ma non starò di certo ad aspettare che questo accada per fare ciò che sento la necessità di fare, ovvero creare musica.
Come ho già detto anche in altre occasioni, sono però fiducioso verso il futuro perché qualcosa si sta muovendo nel verso giusto. Quando riesci a farti notare per quello che fai senza che nessuno ti abbia portato a braccetto verso questo obiettivo, allora vuol dire che la strada che hai preso è quella giusta. E magari un domani, con una storia credibile alle spalle, potrai essere supportato da chi avrà davvero fiducia in quello che fai e in quello che sei.
Copertina con uno sguardo molto intenso. Di chi è? Come è nato questo scatto e la copertina?
Il bimbo della copertina sono io. Avrò avuto 8 o 9 anni credo. Lo scatto lo fece mio padre, appassionato di fotografia. Da giovane vinse anche un premio. Era davvero bravo a fare le foto. Ne ho tante di bellissime e mai banali, come questa qui, con questo sguardo intenso tra l’incazzato e il riflessivo. Pensa che di questa foto ho fatto una gigantografia che copre quasi tutta una parete. Considera che questa gigantografia è appesa nella stanza dove ho composto e arrangiato gran parte dei pezzi (il mastering l’ho fatto a Milano al NEXT3 studio) e avevo sempre alla mia destra questo faccione di me, da bambino, che mi guardava e mi ispirava, evocando in me anche ricordi e sensazioni del passato, quindi, mi è venuto in mente, di fargli onore, utilizzandolo nella copertina che appare come fosse un murales stampato in una parete, un po’ rovinato dal tempo e che da la sensazione di una serie di cicrattrici sul disegno del bambino e che, nella parte bassa, riflette l’immagine di parte del mio home studio con tanto di computer e tastiere, mentre, nella parte centrale, è sovraimpressa un’immagine del mio volto da adulto (solo i più attenti ci hanno fatto caso). Credo che l’effetto, nel suo complesso, sia venuto bene e che la copertina sia la giusta rappresentazione di quello che è Linear Burns. Grafica e ideazione tutta del sottoscritto.
Difficile pensare a dei live in questo periodo, ma volendo essere ottimisti, come presenteresti Linear Burns?
I live di chi fa musica elettronica sono sempre molto difficili da pensare da un punto di vista scenografico. O riesci a dare la giusta rappresentazione tramite luci e video o tutto rimane affidato all’impatto emotivo del suono dei sintetizzatori.
Immagino il live di Linear Burns con una giusta commistione tra video e luci ad effetto, ma poi, alla fine, è sempre la musica che la fa da padrone. Quando suoni live, musica elettronica, ti puoi comunque sbizzarrire con i sintetizzatori ed è sempre molto divertente e creativo.
Tuttavia, credo fermamente che un certo tipo di musica riesca anche a dare di più, rispetto alla musica rock o pop, se ascoltata in cuffia o magari con un bell’impianto stereo a casa.
Questo periodo ci ha fatto capire che anche il discorso delle performance live, per forza di cose abolite, attualmente, debba trovare dei validi surrogati con esibizioni anche on line, in streaming e che questa modalità, in futuro, troverà, grazie alla teconologia, sempre più ampie possibilità per essere coinvolgente e sempre più entusiasmante.
Altro da dichiarare?
Ti ringrazio per questa bella intervista e per avermi consentito di andare un po’ aldilà delle classiche risposte di rito. E grazie a tutto il pubblico che presta attenzione anche agli artisti indipendenti. Sono certo che sarà grazie a questo pubblico che si potrà cambiare una tendenza che da troppo tempo risulta schiacciata su dinamiche sterili e poco alternative.
Permettimi, sul finale, di ricordare a tutti che è possibile seguirmi su tutti i social (facebook, instagram, twitter, Spotify, bandcamp ecc) e sul mio sito www.dingecco.com dove troverete tutto su di me e la mia musica. Un grazie di cuore a tutti coloro che supportano la mia musica!
Intervista fiume oggi pomeriggio in palude con D.In.Ge.Cc.O e la sua elettronica maestosa come il suo disco che dura il doppio di un normale cd di oggi.
RispondiEliminaUn disco che sembra un viaggio, una partenza con il treno, un viaggio in areo in paesi caldi, un viaggio in auto con amici, e perché no a piedi o in bici con un partner o da soli, come preferite ... importante che viaggiate, anche con la mente.
RispondiElimina...se pensiamo che il disco è nato durante il primo lockdown, con D.In.Ge.Cc.O chiuso nel suo home-studio, la cosa ha un senso.
RispondiEliminaDodici canzoni per viaggiare, a volte si sentono suoni di stazioni ferroviarie o il vociare degli imbarchi aerei, ma anche il rombo di un motore o la ruota della bici che gira al ritmo della musica...
RispondiEliminaSì, perché è un disco pieno di ritmo, anzi ritmi come nel ballabile politico-poetico che apre le danze Jazzy Trasforming Nazi.
RispondiEliminaRitmo caldo in GloryduMM, con tastierine protagoniste per un brano che qualche anno fa si sarebbe definito giocattoloso.
RispondiEliminaIntrigato/intrigante Foreign Doors, buono per un balletto anni Ottanta, come per una spy-story.
RispondiEliminaNon sto dicendo i miei preferiti, ma quelli che mi colpiscono maggiormente. Difficile, come dice D.In.Ge.Cc.O, scindere il suo disco in singoli pezzi. Si tratta di un blocco unico.
RispondiEliminaCerto, Chicago, pezzo di elettronica pura composto nel viaggio aereo da Chicago all'Italia (come spiega ironicamente nell'intervista)colpisce perché diversificato e a tratti molto danzereccio.
RispondiEliminaMa potrei dire anche di Whitin UsAbove Us, apertura mentale finale, di elettronica altrettanto pura, o ... tutto il disco.
RispondiEliminaProvate ad ascoltarlo, prendetevi un'oretta del vostro tempo, potrebbe essere interessante.
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